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Antonio Chialastri
28
lug

Houston, we have a problem

Pubblicato il 28 luglio 2025 da Antonio Chialastri

Nel 2017 scrissi un libro insieme ad altri autori sul caso Germanwings, che fu insignito del prestigioso premio Douhet come migliore opera a carattere tecnico-scientifico nel 2019. 

L’idea di base di “Dopo Germanwings – La vita del pilota di linea” prende spunto proprio dal final report della BEA sul tragico caso del pilota tedesco che si suicidò mentre era ai comandi di un Airbus A-320, portando con sé 164 passeggeri più il resto dell’equipaggio.

Di per sé, anche un caso così eclatante non sarebbe un motivo di preoccupazione per chi si occupa di safety, perché potrebbe rappresentare il classico “cigno nero”, per usare un’espressione coniata da Nassim Taleb. 

Invece, analizzando il rapporto dell’autorità francese è emerso che il fenomeno è tutt’altro che circoscritto e si citano eventi che si sono succeduti in rapida sequenza dal 2012 al 2015. Sono cinque casi in cui uno dei piloti a bordo ha tentato o è riuscito a porre fine alla sua vita insieme a quella dei malcapitati e innocenti passeggeri che ebbero la sventura di trovarsi sul quel volo. 

A quei cinque casi vanno aggiunti poi il suicidio del pilota cinese della China Eastern che nel 2022 si impadronì dell’aereo, facendolo precipitare dalla quota di crociera (final report mai pubblicato), e quella di un pilota americano che volava fuori servizio che, sotto effetto di funghi allucinogeni, tentò di spegnere i motori mentre erano in volo.

Infine, il caso dell’Air India che proietta una luce sinistra sul comportamento del Comandante che pare abbia intenzionalmente spento i motori durante il decollo. Anche concedendo il beneficio del dubbio perché il preliminary report non è un rapporto definitivo, tuttavia sono davvero pochi i motivi per cui un pilota si senta autorizzato a spegnere i motori mentre l’aeroplano stacca le ruote da terra. 

Quindi, parliamo di otto casi in meno di tredici anni, ossia un evento del genere ogni anno e mezzo. 

Ora, seppure è comprensibile che parlare di fenomeni del genere possa indurre sfiducia nel trasporto aereo da parte dell’utenza, è anche vero che ci sono trentaquattro milioni di voli l’anno e che l’aviazione è così sicura proprio perché a fronte di problemi strutturali non nasconde la testa sotto la sabbia, sperando che lo stellone ci protegga. Il fenomeno va compreso, analizzato, e vanno approntate delle contromisure idonee che permettano di evitare il suo ripetersi. 

In realtà, EASA aveva cercato di prendere delle contromisure dopo il caso Germanwings, ma si è trattato di provvedimenti che non risolvono il problema, tanto che nei successivi tre casi si è dimostrato che a nulla sono valse le proposte dell’ente europeo per la sicurezza aerea.

Infatti, le misure proposte si articolano in cinque aree:

  1. 1. Almeno due piloti sempre in cabina di pilotaggio. In realtà, nel caso del pilota americano, del pilota cinese e del Comandante dell’Air India, in cabina di pilotaggio erano almeno in due. Nel caso della China Eastern addirittura in tre. Ciò non può limitare la potenzialità lesive di chi è intenzionato a porre in essere un atto tanto efferato.
  2. 2. Controlli severi su alcol e droga. In realtà, né Lubitz, il pilota di Germanwings, né gli altri erano sotto effetto di droga e alcol. Anzi, il numero di incidenti aerei dovuti a condizioni psico-fisiche alterate dei piloti per alcol o droga è zero. Quindi un non problema.
  3. 3. Da parte del medico curante, vi deve sempre essere un compromesso tra tutela della privacy e rispetto dell’incolumità pubblica. A parte che già adesso un medico che venga a conoscenza di intenzioni criminali da parte del proprio paziente deve valutare se tale minaccia sia reale e in caso avvisare l’autorità giudiziaria per evitare che vi siano problemi per la collettività. IL tema rimane comunque spinoso. Il medico deve comunicare la prognosi, non la diagnosi. Questo serve non soltanto perché vi è un dovuto rispetto della privacy, ma perché i dati potrebbero finire in mano a delle assicurazioni o dei soggetti che potrebbero poi penalizzare un individuo sulla base della conoscenza della propria cartella clinica. Nel caso Germanwings, poi, il medico non aveva autorizzato il pilota, in cura per problemi psichiatrici, a volare. Fu il pilota stesso che ingannò la Compagnia, dicendo che aveva terminato il periodo di malattia e che il certificato medico sarebbe arrivato in base ai tempi tecnici della posta tedesca. Non ultimo, il fatto che un medico che avesse rivelato la natura della malattia a terzi, avrebbe rischiato in Germania la pena detentiva. 

La vera barriera protettiva, in casi simili, è che il medico curante avvisi la Compagnia aerea che il suo assistito non è più malato. 

  1. 4. Addestramento per il medico che rilascia le certificazioni o che svolge la visita periodica, per capire se ci sono elementi che destano preoccupazione. Pia illusione, poiché il tutto si riduce a un foglio in cui il pilota auto-dichiara di essere fit to fly. Anche perché, se dicesse il contrario, rischierebbe di perdere i brevetti o di entrare in un programma in cui l’uscita diventa problematica. 
  2. 5. Il peer support. Unico elemento razionale che può aiutare le persone in difficoltà a rivolgersi a un loro pari, una persona con capacità di ascolto e di atteggiamento empatico. Si è dimostrato nel tempo che i programmi peer support sono di grande aiuto perché recuperano le persone che momentaneamente si trovano in condizioni di sofferenza psichica per diversi motivi. Anche qui però si apre un tema molto delicato poiché ogni passaggio del programma presenta delle aree di ambiguità non facili da gestire. Ad esempio, deve essere il soggetto a chiedere aiuto oppure è qualcuno che lo deve segnalare in base ai suoi comportamenti? E se a fronte di un supporto da parte dei pari si dovesse poi indirizzare il pilota verso un percorso di recupero presso un professionista della salute mentale, cosa succede se poi il pilota non ottempera all’indicazione del peer? È un piano scivoloso che non permette risposte nette e chiare. 

Dal rapporto BEA risulta tra l’altro che oltre quarantaquattromila piloti americani usano psico-farmaci, che non è un bel segnale. Dovremmo quindi andare alla radice di questo malessere. Forse le esigenze di produzione si sono rivelate troppo pressanti, sottoponendo i piloti a stress di difficile gestione? Quali sono i fattori protettivi per evitare di portare le persone al loro punto di rottura? Siamo d’accordo sul fatto che il pilota tedesco fosse affetto da patologie psichiche, ma gli altri non risulta che avessero manifestato in precedenza delle problematiche simili. Nel caso del pilota della China Eastern, pare che in cabina di pilotaggio fossero in tre: un Comandante di 35 anni, con circa 5000 ore di volo, il pilota di 25 con 500 ore di volo e il terzo pilota con 31800 ore di volo. Quando lessi la notizia pensai a un errore di battitura. Consideriamo che un pilota a fine carriera può arrivare a 20000 ore di volo, massimo 24000. Non avevo mai sentito un numero di ore così elevato, forse un record. Indagando ancora, appresi che il pilota in realtà era un ex-Comandante della Compagnia, che aveva portato il B737 in Cina, era stato istruttori di molti piloti, compreso quello con cui stava volando. Era critico verso il partito comunista cinese e questa sua avversione risultava dai registratori di bordo il cui utilizzo non ha le tutele previste in Occidente. Fu in qualche misura messo sotto la lente di ingrandimento e in occasione di un evento marginale fu messo sotto check al simulatore. Venne bocciato, degradato, trasferito, multato. Nel frattempo la moglie morì di COVID. 

Ora, questo pilota era una persona considerata normale, se non sopra la media. La domanda quindi sorge spontanea: quante cose vogliamo mettere nel frullatore prima di arrivare al punto di rottura? I piloti non possono essere trattati come se fossero di fil di ferro. Hanno una vita, una carriera, una struttura della personalità che è di grande affidabilità, ma non sono macchine. Pensare di poterli trattare in modo irrispettoso, cinico, prepotente, può causare in qualche soggetto desideri di rivalsa e di vendetta verso l’organizzazione, dando vita a quello che viene definito il “suicidio sansonico”. Se è pur vero che il poliziotto si suicida con la pistola di ordinanza, pensiamo a come un pilota possa orientare la propria frustrazione e le conseguenze che ne possono scaturire. Nel caso del pilota dell’Egyptair che si suicidò nel 1997, il giorno prima del volo fu convocato dal capo-pilota a New York, dove era in sosta, per essere avvisato che al loro ritorno al Cairo sarebbe stato soggetto a un processo penale, a un provvedimento disciplinare della Compagnia con tutto il corollario che avrebbe impattato la sua vita in modo radicale. Portò con sé centinaia di vite, oltre quelle del capo-pilota e dei suoi colleghi. 

Quindi, oggi non abbiamo ancora una chiara risposta a questo fenomeno, ma dall’analisi degli incidenti che sono successi, dobbiamo dedurre che la figura professionale del pilota non può essere sottoposta a livelli di stress esagerati. Forse andrebbe recuperata quella parte ludica che negli anni ha fatto dipingere i piloti come casta privilegiata, quando in realtà quello che si vedeva era l’altra faccia della Luna, fatta di impegni al limite delle capacità umane, di orari di servizio estenuanti, di carichi di responsabilità elevatissimi, di disruption della propria vita privata, quasi mai programmabile con regolarità. Proprio la cura degli aspetti di benessere del dipendente può costituire la base dei fattori protettivi per svolgere la propria professione in modo sereno, affidabile ed efficiente. Ma servono manager illuminati per capirlo. 

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